È in libreria il nuovo romanzo della scrittrice, opinionista e giornalista televisiva che più di altri, in questi anni, sta cercando di approfondire alcune tematiche sociali importantissime come il disagio giovanile, la violenza di genere o il ‘gender gap’: tutti problemi che potrebbero essere affrontati grazie a un Terzo settore organizzato più seriamente, senza clientelismi di ‘sistema’

Claudia Conte, giornalista, conduttrice e opinionista televisiva, è una collega da sempre in prima linea per la tutela dei diritti umani, per le politiche giovanili e nella promozione della cultura della legalità. Ideatrice e volto di format culturali e sociali realizzati in collaborazione con le più importanti istituzioni ed enti del Terzo settore, promuove gli obiettivi dell’Agenda Onu 2030. Ideatrice e promotrice del premio Women in cinema Award dedicato al talento femminile e celebrato ogni anno sia al Festival di Veneziasia alla Festa del cinema di Roma, nel corso degli anni ha visto riconosciuta la propria versatilità ricevendo il premio Eccellenze Italiane dal Senato della Repubblica e l’Oscar dei Giovani in Campidoglio. Scrittrice di grande talento, attualmente è di nuovo in libreria con ‘La voce di Iside’ (Readaction Editrice), dopo il successo già ottenuto con La legge del cuore: storia di assassini, vigliacchi ed eroi e con Il vino e le rose: l’eterna sfida tra il bene e il male’, entrambi editi da Armando Curcio Editore. In questo suo nuovo lavoro, la Conte ha voluto narrare la vicenda di Iside, una diciottenne rimasta terrorizzata dalla fase pandemica, che riesce a superare le proprie paure grazie al volontariato e interessandosi alla violenza di genere. Un romanzo che promuove la cittadinanza attiva e la responsabilità sociale come cura del disagio giovanile, inquadrando molto bene il ‘Giano bifronte’ che incontrano i nostri ragazzi, divisi tra paura e coraggio, nonché pressati dal peso del futuro. Attraverso Iside, noi scopriamo le tante fragilità adolescenziali, ma anche il grande potenziale del Terzo settore e del volontariato che, se utilizzati più seriamente, potrebbero favorire e valorizzare le generazioni più giovani durante la loro non sempre semplice fase di maturazione alla vita adulta, formandoli e indirizzandoli verso il loro futuro.

Claudia Conte, nel tuo nuovo romanzo, ‘La voce di Iside’ (Readaction Editrice), hai voluto raccontare la storia di una ragazza che emerge da una sorta di chiusura caratteriale grazie al volontariato e alla solidarietà: dunque, esistono ancora, secondo te, delle persone di questo tipo, che sembrano provenire da un’altra epoca?

“Il tema è più complesso: l’isolamento di Iside rispecchia un malessere che, purtroppo, pervade le nuove generazioni, complice la pandemia, ma anche le tecnologie e i social media. Iside era diventata impermeabile alle emozioni, che reprimeva per non soffrire. Tuttavia, reprimere le emozioni non significa eliminarle. Al contrario, si ostacola il nostro percorso di crescita personale. Emozioni come la tristezza o la rabbia non sono necessariamente negative. Iside, per conoscere il coraggio, ha dovuto sperimentare rabbia e paura. Ha dovuto conoscere la violenza e il dolore per commuoversi e poi muoversi. Prendendo in prestito le parole di Papa Francesco: “Prendi in mano la tua vita e trasformala in un capolavoro”: per i nostri ragazzi sarebbe perciò fondamentale l’educazione ai sentimenti, alle emozioni, perché un approccio più equilibrato e accogliente verso le nostre emozioni è fondamentale per il benessere psicologico e personale”.

La tua critica di fondo sembra esser quella di una società composta, in larga maggioranza, da persone che tendono a ‘prendere’ dagli altri, senza dare granché in cambio o comunque molto poco: è così? Oppure è un’impressione sbagliata?

“Chi fa del bene, spesso lo fa in silenzio, mentre il male fa rumore e, purtroppo, riempie le pagine dei giornali. L’Italia ha nel proprio Dna la matrice culturale che, insieme alle sue salde radici cattoliche, potrebbero trasformalo nel Paese europeo con la più rilevante economia sociale. Secondo l’Istat, il mondo no profit conta 330mila realtà, circa 5 milioni e mezzo di volontari e 778mila dipendenti. Credo proprio che sia questo il volto più bello dell’Italia: quello inclusivo e solidale, che aiuta a superare la deriva individualistica e materialistica dettata dalla globalizzazione, dal consumismo e della tecnocrazia, preservando il senso di identità comunitaria e di sviluppo umano. Il terzo settore svolge un ruolo fondamentale ed è un solido argine che richiederebbe maggior attenzione mediatica e adeguati sostegni da parte delle istituzioni. Mi rispecchio molto in Iside, perché anche io ho imparato, attraverso il volontariato, che aiutando gli altri si aiuta anche se stessi. Penso che tutti, soprattutto i più giovani, dovrebbero fare esperienza del potere della solidarietà per uscire dall’indifferenza e dall’individualismo”.

Perché, secondo te, si è diffuso questo individualismo quasi cinico anche tra persone che si definiscono ‘aperte’ o, addirittura, di cultura e ispirazione progressista?

“L’individualismo ‘sano’, che richiama la filosofia ellenistica e il cristianesimo più arcaico, inteso come sentimento autentico di individualità unica e irripetibile all’interno della comunità, nonché fratello di ogni altro individuo, nella modernità ha assunto connotazioni estreme. L’individuo, spinto dal nichilismo, ha progressivamente perso il suo legame con la comunità e si è auto-esiliato tra i confini dell’ego. Così le ‘big tech’, che dominano l’intelligenza artificiale, rischiano di ridurre tutti noi a una loro semplice molecola o appendice. Dobbiamo scongiurare questo pericolo e riscoprire la bellezza delle relazioni umane, della solidarietà e della fratellanza: questa è l’unica speranza per l’umanità. Riguardo alle “persone che si definiscono ‘aperte’ o, addirittura, di cultura o ispirazione progressista”, posso dirti che, in molti casi, c’è tanta ipocrisia: è facile parlare nei ‘salotti’; ben più difficile, invece, sporcarsi le mani e andare davvero dove c’è bisogno di aiuto. Io non potrei mai parlare di diritti umani, se non andassi sul campo a vedere e, soprattutto, per contribuire nel mio piccolo”.

Ormai passo la vita a inseguirti tra le tante cose che fai: dove e come hai trovato il tempo di scrivere un nuovo romanzo?

“Il libro l’ho ‘concepito’ durante la pandemia. In quel momento, facevo volontariato con Humanitas. Con tanta incoscienza, ma altrettanta volontà di aiutare le persone in quel contesto drammatico, trasportavamo con le ambulanze negli ospedali i ‘sospetti’ contagiati da quel terribile virus. Così ho voluto dedicare attenzione al volontariato, che per me è la panacea di tutti i mali”.

C’è un po’ di te, nella vicenda di Iside? E cosa?

“Certamente: anch’io, come Iside, ero una ragazza insicura. Purtroppo, ho assistito a tante scene di violenza e di bullismo. Ho visto il degrado e molti coetanei uccisi dalla droga o sedotti dalla criminalità. Lo sport, la cultura e il volontariato, mi hanno aiutata fortemente a credere nei valori positivi e nella legalità”. 

È anche giusto essere un poco diffidenti, visti certi ‘chiari di luna’ che si vivono oggi: tu credi che, leggendo il tuo libro, molte persone, soprattutto tra i giovani, potrebbero rielaborare un nuovo equilibrio tra altruismo e selettività?

“Il mio metro di ‘selezione’ è basato esclusivamente sul valore umano. Io parlo con il Santo Padre e con il panettiere sotto casa con lo stesso rispetto e la stessa educazione. Sono le qualità umane a fare la differenza: il rispetto, la lealtà e la generosità. Non contano, per me, il ceto sociale o il conto in banca: questa credo sia la mia forza”.

Pensi che l’Italia non sia un Paese per giovani?

“No: non è un Paese per giovani e neanche per bambini. Ma dobbiamo lavorare tutti duramente, affinché lo diventi prestissimo. Le politiche assistenziali, il reddito di cittadinanza ‘a pioggia’, dato anche ai giovani, non hanno contribuito a diffondere la cultura del lavoro. Il talento dei giovani va valorizzato, non sprecato con politiche compra-voti. Anche le aziende devono essere incoraggiate a formare e ad assumere giovani, con sgravi fiscali e altri incentivi che promuovano le politiche giovanili. Lo stesso discorso vale per le donne: l’occupazione femminile è aumentata, ma il divario – il ‘gender gap’ – anche in termini salariali resta alto”.

Però anche tanti ‘vecchietti’ se ne stanno andando senza lasciare eredi che proseguano il loro insegnamento artistico o professionale, oppure anche semplicemente valoriale, abbandonandoci in una società alquanto ‘grigia’ o piuttosto triste: tu cosa ne pensi?

“È venuto a mancare il dialogo intergenerazionale. E non ci sono più i grandi Maestri. Un tempo, i giovani potevano contare su alcuni punti di riferimento: delle guide in grado di trasmettere insegnamenti preziosi per la loro crescita professionale e umana. Oggi, invece, siamo diventati più egoisti e molti uomini giunti ai vertici della società preferiscono mantenere le loro ‘poltrone’, piuttosto che investire nella formazione di una nuova classe dirigente. Ma in questo modo, non c’è ricambio generazionale e molti giovani talentuosi sono costretti a fuggire all’estero. Io stessa ho fatto un’esperienza all’estero, ma poi sono tornata, nonostante le poche opportunità. E ho lottato e lotto tutt’oggi per dimostrare di meritare quel che ho raggiunto. Sono tornata perché amo l’Italia: è la mia nazione, il Paese più bello del mondo e voglio contribuire a renderlo, nel mio piccolo, un posto migliore”. 

Tu non sei una donna che si può rinchiudere nei soliti recinti come quelli della madre o della moglie: anzi, quel che sorprende in te è questa splendida versatilità, soprattutto ripensando ai tempi in cui eri una giovane attrice, poi divenuta imprenditrice culturale e poi ancora scrittrice e giornalista: la tua – o la nostra… – non è una libertà per tutti?

“In realtà, io sogno un Paese in cui una donna non sia costretta a scegliere tra carriera e famiglia. Io sogno ancora di diventare madre, perché mi sentirò completa solo in quel momento. Ma sono anch’io un ‘underdog’: ho costruito quel poco che ho da sola, con il rischio costante di perdere tutto. La mia famiglia non faceva parte del ‘sistema’: mentre le mie compagne di banco della scuola elementare di Aquino (Fr) oggi sono mamme, io non ho avuto lo stesso destino. Mi sono dovuta concentrare e ho dovuto studiare e lavorare duramente, senza sosta, per raggiungere i miei obiettivi”.

Intervista di Vittorio Lussana